Sono l’altra metà del vino italiano. Rappresentano infatti circa il 58% dei volumi prodotti e il 40% del giro d’affari complessivo del settore. Si tratta dell’universo delle cooperative vitivinicole, tre distinte centrali che associano 379 cantine cooperative, contano oltre 110mila soci e un giro d’affari annuo di 4,8 miliardi di euro, due dei quali legati alle esportazioni. In termini occupazionali la cooperazione vitivinicola dà lavoro a 9mila addetti il 67% dei quali impiegati a tempo indeterminato.
E sono l’altra metà del vino italiano rispetto al mondo delle cantine familiari e dei grandi model storici, ma detengono esse stesse model rinomati e spesso rappresentano unioni di famiglie di viticoltori. Nell’annuale report di Mediobanca sulle principali cantine italiane per fatturato nei primi cinque posti troviamo tre cooperative. Al vertice Cantine Riunite & Civ, al secondo Caviro (entrambe coop), al terzo e quarto posto le prime due aziende personal, Argea e Antinori e al quinto di nuovo una cooperativa, la trentina Cavit.
Un universo che ha attraversato gli ultimi difficili anni, quelli della pandemia prima e del conflitto russo ucraino poi con conseguente escalation dei costi, facendo squadra, rafforzandosi e cercando di individuare percorsi di sviluppo futuro. Con direttrici che sono state individuate nel processo di concentrazione, nella specializzazione e negli investimenti in innovazione.
Il processo di concentrazione è partito circa dieci anni fa e ha contato almeno venti grandi fusioni in Italia tra coop del vino. Ma al di là degli accorpamenti, si contano tantissimi accordi tra cantine che hanno per oggetto collaborazioni nel campo dell’innovazione, della sostenibilità e dell’export.
Altro punto chiave e che sta emergendo con forza è quello della specializzazione. «Stanno diminuendo le aziende che fanno tutto, dall’uva all’ortofrutta e ai cereali – spiega il presidente dell’Alleanza delle cooperative agroalimentari, Carlo Piccinini –. Come ci sono sempre meno aziende che producono uve, le vinificano e le commercializzano in proprio. Assistiamo, in molte regioni d’Italia, all’ingresso di una nuova generazione di viticoltori altamente formati e specializzati, che prendono in gestione vigneti di produttori che escono dal settore, o ne acquistano le quote dopo l’estirpo, per raggiunti limiti d’età in una sorta di ricambio generazionale extrafamiliare. In questo modo questi nuovi produttori, da un lato, continuano a garantire la permanenza della viticoltura nei territori ma, dall’altro, si specializzano nella sola produzione di uva. Ricorrendo alla meccanizzazione e all’innovazione tecnologica riescono a produrre con costi ridotti e a garantirsi una redditività fatta di sola viticoltura delegando le fasi della vinificazione e della commercializzazione, e i relativi investimenti, alla cooperazione».
«La cooperazione è uno strumento per interpretare i tempi – aggiunge il coordinatore del settore vitivinicolo dell’Alleanza delle cooperative, Luca Rigotti –. In passato ha consentito a tanti produttori che operavano nella mezzadria di diventare proprietari. Nel tempo ha permesso a tante piccole aziende di accedere ai mercati anche internazionali. E adesso è un importante veicolo per accompagnare le aziende nella transizione ecologica. Oggi nelle nostre cantine abbiamo processi, tecnologie avanzate, studi su antiparassitari e pratiche agronomiche a impatto limitato. Il contratto cooperativo ha consentito questo sviluppo investendo intere aree territoriali come non sarebbe stato possibile fare partendo dall’iniziativa dei singoli».