Pandemia e guerra hanno profondamente modificato i consumi agroalimentari e reso più complesso produrre e vendere a causa dell’escalation dei costi e per l’impatto della speculazione ma l’industria alimentare italiana ha saputo reagire mostrando forza, compattezza e resilienza. È il bilancio tracciato dal presidente di Unione Italiana Meals (compagine che rappresenta un giro d’affari di 45 miliardi di euro) Marco Lavazza, giunto al termine del proprio mandato alla guida dell’associazione. «Sono stati quattro anni molto impegnativi. Period dalla crisi finanziaria del 2007 – sottolinea Lavazza – che non affrontavamo un periodo così complesso. Le crisi degli ultimi anni sono state ancora più impattanti perché hanno colpito approvvigionamenti, costi, chiusure come quelle di bar e ristoranti. C’è però un elemento in comune. Le crisi che abbiamo affrontato sono quasi sempre di natura esogena, non dipendono dal nostro sistema. Questo, da un lato, dimostra come i mercati siano globali e interconnessi ma, dall’altro, ha fatto emergere la capacità di reazione dell’industria agroalimentare italiana. Con le imprese di Unione Italiana Meals abbiamo superato momenti davvero difficili come le prime settimane della pandemia, quando avevamo la responsabilità di continuare a produrre nonostante le poche informazioni disponibili. Abbiamo collaborato con sindacati, aziende di trasporti e grande distribuzione e siamo riusciti a garantire i prodotti sugli scaffali dei supermercati. Quel periodo ha mostrato a tanti l’importanza del nostro settore. Senza contare che nonostante anni così complessi siamo cresciuti ancora sul fronte dell’export».
La pandemia che eredità ha lasciato sui consumi alimentari?
Le distorsioni sono in gran parte rientrate: il “fuori casa” ha ritrovato vigore anche grazie alla ripresa del turismo. Resta, tuttavia, un cambiamento importante e probabilmente strutturale: il diffondersi dello good working ha modificato le abitudini, facendo calare i consumi out of residence in alcune fasce della giornata.
Il conflitto invece ha mostrato la necessità di evitare dipendenze sul piano degli approvvigionamenti.
Il conflitto è anzitutto un dramma inaccettabile dal punto di vista umanitario e purtroppo ancora non si intravedono spiragli di tempo. Come non sono scomparse le ricadute economiche. Sul fronte energetico sono emersi i ritardi delle nostre infrastrutture di produzione e accumulo. Ma anche sul fronte delle materie prime è emersa la fragilità di alcuni canali di approvvigionamento. Tutti fattori che ci hanno esposto alla speculazione. Occorrono ora provvedimenti che tutelino i settori produttivi come il nostro. L’industria agroalimentare promuove e valorizza gli eccezionali prodotti della terra coltivati in Italia ma abbiamo anche la necessità di importare dall’estero una parte delle materie prime anche solo per raggiungere livelli quantitativi necessari a sostenere l’export. Il made in Italy è anzitutto inventiva, capacità di trasformare e caratterizzare un prodotto, renderlo unico: penso a caffè e cacao, prodotti realizzati con materie prime estere ma a pieno titolo riconosciuti come specialità italiane. In questi anni l’industria alimentare italiana è diventata uno degli alfieri del made in Italy all’estero. Sotto questo profilo, forse, meriterebbe una maggiore considerazione all’interno dei confini nazionali.